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NON LO CREDEVO POSSIBILE ...



Non lo credevo possibile, invece ci si abitua a tutto, persino al peggiore dei mali. Così come non credevo possibile che potesse esistere una malattia così atroce e straziante come questa.
Ero solo una ragazzina quando chiesi a mia madre, brillante professoressa di lettere, di aiutarmi a preparare l’esame di maturità. “Mamma mi fai il riassunto di questo brano?”
Questa domanda rimarrà scolpita per sempre nella mia memoria.
Lei, che mi aveva sempre insegnato ogni cosa, che sapeva tutto di Dante, Manzoni fino al più sconosciuto degli autori .... imbarazzata, innervosita mi rispose “Sono confusa, non so perché ma ora non riesco a farlo”.
Da quel giorno mia madre non è stata più la stessa. Almeno per me.
Da quel giorno la malattia si è palesata progressivamente in maniera sempre più evidente. Avrei preferito un cambiamento repentino, violento, doloroso, ma breve e sfacciato. Invece no, tutto è avvenuto in modo subdolo, meschino. Lentamente la sua memoria ha incominciato a divenire sempre più sbiadita come una vecchia fotografia in bianco e nero.
Ed io non avevo capito cosa realmente le stesse accadendo.
Ed ora i sensi di colpa bruciano come acido su ferite aperte. Quante volte l’ho trattata male, quante volte l’ho sgridata perché non riusciva ad aprire una bottiglia o perché mi chiedeva di comporre i numeri di telefono adducendo la scusa che le si era abbassata la vista. “Ma come è possibile che non riesci più a fare nemmeno questo?! E’ colpa tua, ti stai trascurando!”
Ad ogni capacità persa aumentava la mia rabbia contro di lei. Non era possibile. Non poteva MIA madre essere “malata”!
Quando poi, oramai, aveva perso l’autonomia tale da potersi vestire da sola, il mio disagio è cresciuto a dismisura. L’aiutavo perché non potevo fare altrimenti, ma in quei momenti avrei preferito morire. Le mettevo velocemente i vestiti, cercando di fare il più in fretta possibile. Con tutta l'acidità possibile, neanche fosse il mio peggior nemico, le dicevo nel frattempo di sbrigarsi “Su avanti, infila il braccio”. Tum-tum, tum-tum, il cuore nel frattempo mi esplodeva in petto. Finito il tutto, correvo via, a rinchiudermi nel posto più scuro e appartato della casa per poter finalmente scoppiare in lacrime ed urlare “PERCHE’?!”.
La odiavo. Non che avessi mai avuto un rapporto idilliaco con lei, ma la sua inettitudine crescente mi faceva saltare i nervi. Non capivo. Anche quando era oramai evidente e chiaro a tutti, anche quando sapevo, io non volevo sapere, non volevo aiutarla.
Non me lo spiego. Non so se è normale avere una reazione del genere. In molti mi dicono che è un meccanismo di autodifesa. Sarà, ma io ora mi vergogno tanto di quella mia crudeltà.
Quando la guardo oggi mi fa tanta tenerezza. E’ una dolce bambina indifesa. Dice poche parole sensate, ma più spesso parla una sua personalissima lingua fatta di versi, urla e parole inesistenti o storpiate. E’ difficilissimo starle accanto, una giornata con lei toglierebbe la pazienza anche ad un santo. Eppure, quando sono lontana anche solo per poche ore mi manca terribilmente. Sento che lei ha bisogno di me, anche se a volte mi guarda e mi chiede “E Federica non c’è?” Quando lo fece la prima volta scoppiai a piangere e urlando le dissi “Ma non lo vedi che sono io?!” Ora, quando lo fa, più spesso sorrido e lei, allora, sorride con me.
Ecco, ora non cerco di scappare da lei, anche se spesso vorrei essere risucchiata in un buco nero dove il tempo e lo spazio non esistono, sono più le volte che l’abbraccio e la bacio di quelle in cui sprofondo in un individualistico dolore.
Forse è questo quello che vuole insegnarci questa malattia, che la vita non è fatta di “io”, ma di “noi”. Scoprire che è più gratificante riuscire a far sorridere gli altri che tentare di rendere felici se stessi. Che l’affetto sempre cercato e mai trovato bastava donarlo per riceverlo automaticamente in cambio.

Fede


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Ultimo aggiornamento di questa pagina 31 gennaio 2009