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IN RICORDO DI MIA MADRE
Lettera ad una madre morta due volte



Cara mamma,

non so se nel partorire un figlio, nel seguirlo nei primi passi della vita, nel tentare di entrare nel suo mondo quando l'adolescenza con tutti i suoi problemi bussa alla porta ed i fili che congiungono le due anime si danno più sottili, crei una sofferenza simile a quella che mi ha consumata per gli otto anni "dichiarati" della tua malattia e che, a distanza di dodici dalla tua morte, è ancora lì pronta come una proiezione sullo schermo, a farmi rivivere tutte le fasi, mese dopo mese, che ti hanno tolto dal mondo dell'essere cosciente, con un pesante senso di colpa.
Perdono, perdono per non aver saputo niente dell'abisso dove stavi lentamente scivolando; di non aver capito fino in fondo il medico che, con grande naturalezza mi ha detto: è demenza senile.


Prima di allora non avevo sentito niente di simile e
non sapevo niente della tragedia che di lì a poco
ci avrebbe sopraffatto entrambe


Perdono, mamma, per non aver avuto la possibilità di capire che in te stava morendo il tuo status di madre e che il tuo mondo cerebrale si stava rimpicciolendo sempre più fino a dare spazio solo allo status di figlia: mi sono trovata "madre" di mia madre; a me - donna senza figli - sentirsi chiamare mamma da colei che in qualche modo era stato un punto forte di riferimento ha creato squilibrio interiore e sconcerto. Che fare quando piangevi per ore, tenevi la testa affondata tra le mani appoggiate sul tavolo, non sapevi più vestirti, non eri più capace di cucinare, tu cuoca eccellente: è stato tremendo prendere coscienza del fatto che un patrimonio di affetto, di conoscenze, di gesti consueti stava per scomparire per sempre.


Che fare?

"E' vecchia, non capisce più niente, è arteriosclerosi, bisogna metterla in un istituto…….. ": questi i messaggi che mi giungevano da più parti. Ma io non potevo accettare la realtà di un istituto. Capivo dal tuo sguardo che non tutto era distrutto in te e sapevo che il tuo rifiuto per certi ambienti sarebbe stato manifestato fino alle conseguenze più estreme. Un medico - dopo averne consultati diversi - mi sviluppò, come un rullino fotografico, tutte le fasi che ci attendevano prima del momento conclusivo.


Allora, mamma, ho cercato di organizzarmi
come meglio ho potuto.

Ti ho seguito nelle tue manifestazioni di gioia quando mi sentivi cantare e volevi che cantassi "ancora, ancora", quando volevi andare, andare …. Ma dove?, quando non volevi vederti i capelli bianchi e ti portavo di negozio in negozio a provarti parrucche nere. Ma nessuna era di tua soddisfazione. Piano, piano ti sei impadronita di me e dei miei spazi con i tuoi "grazie" "prego" "scusi" ripetuti: segnali del tuo carattere dolce e della tua buona educazione resi ancora più evidenti dalla malattia. Non potevo però darti tutto il mio tempo: il lavoro, la famiglia avevano le loro leggi. Ho cercato ed ho trovato una soluzione che potesse aiutarci entrambe. Ti ho riportato nella tua città dove tutto ti era familiare: le persone, i luoghi, il modo di vivere, ma io ancora oggi avverto, sento, che in te lo strappo è stato doloroso. La famiglia con cui hai vissuto era numerosa ed allegra con tanta gente, vera fabbrica del sorriso, stavi bene, ma io sentivo il desiderio di darti un po' di me. Avvertivo che nel tuo vivere vegetale, lentamente, non c'era più posto per me, diventavo un'immagine sfocata. e così mi hai rifiutata: Lentamente anche il linguaggio articolato ti ha abbandonato, solo suoni! Tutti i fili si erano rotti, ma, d'improvviso, quasi per magia, le carezze, i massaggi, insomma il contatto epidermico hanno ricreato una luce nei tuoi occhi quando mi guardavi ed ho capito che non ci eravamo ancora perdute del tutto.


d'improvviso, quasi per magia, le carezze, i massaggi
hanno ricreato una luce nei tuoi occhi quando mi guardavi

Ma il femore rotto ha precipitato la situazione ed il tuo degrado per chi ti aveva visto piena di vita, di energia, di entusiasmo - anche se la vita non era stata generosa con te - era inaccettabile. Un solco, sempre più profondo, dentro di me si apriva ogni qualvolta ti vedevo ed avrei voluto morire insieme a te. Finché un caldissimo pomeriggio di luglio, il giorno di S. Anna, alle 18 in punto di dodici anni fa, dalle tue labbra è uscito un suono - sembrava una liberazione. Prima di allora non avevo mai visto morire nessuno; è stato un suono così liberatorio che, mentre ti stringevo tra le braccia, mi ha improvvisamente gelato tutto il sudore che avevo addosso. E' stato come se quel sospiro di sollievo fosse improvvisamente diventato una risposta di vita al precedente stato distruttivo della stessa. Difficile spiegare il turbinio di sensi di colpa che mi assalivano mentre piano piano il tuo corpo diventava freddo, ma, madre mia, sul nostro cammino non abbiamo trovato chi potesse aiutarci a capire, a trovare soluzioni per sopravvivere, a saper accettare una nuova condizione, quella condizione che tu, nei momenti di lucidità, non capivi e domandavi con voce singhiozzante il perché eri diventata così. Non avevo la risposta e ancora oggi non ne ho!!!

Giovanna Boschetti


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